LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE COSTRUENDO MODELLI"

creata il 29 marzo 2010 aggiornata il 16 aprile 2012

 

 

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Esiste un semplice modello topologico dell’affermazione che, in quanto scienza dell’ignoranza, la psicanalisi non rientra in alcuna delle scienze correnti, benché non ne contraddica nessuna. In altri temini, esiste un semplice modello topologico che rende conto dei fatti peculiari che la psicanalisi mette in evidenza. Infatti, i suoi rapporti con le altre scienze sono singolari e specifici della psicanalisi. Intendo dire che la psicanalisi non è fisica, ma non contraddice la fisica, per esempio è indeterministica come la meccanica quantistica; non è biologia, ma non contraddice la biologia, per esempio non adotta l'ereditarietà dei caratteri acquisiti, come tende a pensare Freud; non è sociologia, ma come la sociologia riconosce l'affinità tra soggetto privato e soggetto collettivo; non è linguistica, ma come la linguistica adotta la dicotomia tra significante e significato; ecc.

Ecco il modello di scienze dell'ignoranza che incorpora la doppia negazione: "non è... ma non è in contraddizione" .

Siano A, B, C, D… un certo numero di scienze correnti, immerse nel campo epistemico X. Consideriamo A, B, C, D… X come aperti della topologia su X, che ha come aperti di base le loro intersezioni finite (ivi compresa l'intersezione vuota, che coincide con X). Le scienze dell’ignoranza stanno alla frontiera dell’unione delle scienze correnti A, B, C, D… (che in generale non ricopre tutto X). Questo modello rappresenta le scienze dell’ignoranza in due modi: localmente come fenomeno interstiziale e globalmente come rete. Ogni nuova scienza produce un “buco” nelle scienze dell’ignoranza, che costituiscono complessivamente un fenomeno epistemico residuale, articolato in un certo numero di maglie. La psicanalisi circola in questa rete “sfiorando” le scienze correnti. Il modello topologico conferisce a termini di uso comune, come “rete” e “maglie”, una consistenza superiore alla semplice metafora o analogia tratta dalla vita quotidiana.

Il modello suggerisce, inoltre, alcune interessanti considerazioni.

In primo luogo, secondo il modello presentato, le scienze dell’ignoranza sono un insieme chiuso. (Ogni frontiera è un insieme chiuso.) In un certo senso, la chiusura topologica – un'operazione formalizzata a suo tempo da Kuratowski con proprietà di isotonia e additività semplice – implica che dalle scienze dell’ignoranza non si possa mai uscire. O meglio, si può uscire solo da dentro, creando quelle che Derrida chiamerebbe enclave topologiche, “al di là dentro” (Cfr. J. Derrida, Adieu à Emmanuel Lévinas, Galilée, Paris 1997, p. 146). Il campo delle scienze dell’ignoranza si “riduce” solo generando al suo interno nuove scienze, che introducano nella rete nuove maglie. Ciò riguarda da vicino la fine dell'analisi. Concludere un'analisi personale può essere pensato come l'atto che inaugura una piccola nuova area scientifica all'interno del campo epistemico del soggetto. Con la fine dell'analisi si apre un atollo di sapere nel mare dell'ignoranza: come Venere dalle onde del mare, con la fine dell'analisi nasce la scienza del soggetto che ha fatto esperienza dell'inconscio e ha concluso con una teoria scientifica il lungo processo analitico. Giustamente la nostra lingua designa l'inaugurazione anche con il termine di “apertura”. Il nostro modello topologico di scienze come insiemi aperti sfrutta questa intuizione linguistica.

Simmetricamente, il modello consente di immaginare il movimento inverso di riassorbimento di un'area scientifica nel mare di ignoranza – è la chiusura di un'avventura scientifica. E' la regressione o chiusura epistemica che è toccata in sorte, per esempio, all'astrologia con l'avvento della fisica galileiana. Galilei ha indebolito il determinismo delle cause efficienti e ha rinforzato il meccanicismo delle simmetrie spaziotemporali. (Per il principio di inerzia esistono movimenti inerziali senza causa, che rappresentano trasformazioni simmetriche dello spaziotempo). Senza determinismo l'astrologia, esattamente come la metapsicologia freudiana, non può sopravvivere. Resta un pesce fuor d'acqua.

Le scienze correnti hanno perso il ricordo della loro origine dall'ignoranza. L'ignoranza attuale della scienza è ciò che non si sa oggi – i rompicapi che non si sanno ancora risolvere o le congetture che non si sanno ancora dimostrare. Ma ben diversa è l'ignoranza originaria, che per la scienza vigente resta un limite inattingibile a distanza infinita. Il matematico non ricorda più che la sua splendida teoria degli insiemi è nata dall'ignoranza di cosa sia effettivamente un insieme. Il biologo darwiniano, che combina miracolosamente l'indeterminismo della variabilità genetica con il determinismo della selezione naturale, dimentica di non sapere cosa sia effettivamente la vita. La psicanalisi scientifica rammenta alle scienze attuali che esse nascono da un humus di ignoranza soggettiva e che si sviluppano elaborando l'ignoranza originaria, la quale tuttavia resta rimossa per il soggetto della scienza. Freud chiamava Urverdrängung (rimozione originaria) questo luogo epistemico inaccessibile al soggetto, che fonda il soggetto. Al soggetto della scienza la psicanalisi rammenta di essere a sua disposizione come "esperta" di ignoranza. Si offre, cioè, come consulente scientifico per l'operato di ogni operatore scientifico. Sul suo biglietto da visita c'è scritto che la specializzazione, se così si può dire, della psicanalisi è

saperci fare con l'ignoranza.

In secondo luogo, la possibilità di darne un modello (topologico) dimostra che la nozione di scienze dell’ignoranza, apparentemente solo negativa, non è contraddittoria, ovviamente nella ragionevole congettura che anche la topologia sia coerente. Questa affermazione è tipica del ragionamento matematico, che non è né assoluto né categorico ma condizionale. Infatti, coinvolge l'implicazione materiale: se A, allora B. Se la topologia è coerente (A), allora le scienze dell'ignoranza, psicanalisi compresa, sono coerenti (B).

Topologia dell'ignoranza

(Una mia analizzante mi fa giustamente notare che dovrei disegnare tratteggiato anche il campo X. Il fatto è che comunque lo si disegni si sbaglia, perché in topologia lo spazio globale è contemporaneamente aperto e chiuso, come l'insieme vuoto).

Naturalmente, il modello topologico qui proposto non ha la pretesa di essere l'unico. Non esistono modelli unici o ortodossi nella scienza moderna. Ogni modello è in effetti una classe di modelli, talvolta non equivalenti tra di loro. (E' il caso dei modelli di strutture non categoriche). L'unica pretesa del modello presentato è di essere tra i più semplici modelli di scienze dell'ignoranza. In effetti, l'intero calcolo delle probabilità andrebbe considerato come il modello moderno delle scienze dell'ignoranza o, meglio, come la classe dei modelli di scienze dell'ignoranza. In ogni modello probabilistico – a partire dal più semplice, il lancio di una moneta – la probabilità prende il posto dell'incertezza o dell'ignoranza circa l'esito atteso del fenomeno. De Finetti amava definire il calcolo delle probabilità una logica dell'incerto, che estende la logica booleana dall'insieme binario (vero, falso) all'intervallo di probabilità compreso tra 0 e 1. Una definizione più attenta alle esigenze del soggetto della scienza preferirebbe parlare di "logica dell'ignoranza" (Cfr. Bruno de Finetti, La logica dell'incerto, Il Saggiatore, Milano 1989). La connessione tra ignoranza e probabilità evidenzia la differenza decisiva tra scienza antica e scienza moderna. La scienza antica si configura su uno sfondo di certezza e di completezza; la scienza moderna, invece, emerge dalle nebbie dell'incertezza e dell'incompletezza. Il suo momento originario e fondante è il dubbio cartesiano. La scienza antica, invece, non conosce dubbi. E' originariamente certa, essendo sistematicamente e completamente codificata nel "libro". Non pratica l'ignoranza, perché è essenzialmente completa. Ogni verità è già tutta scritta. La semantica coincide con la sintassi. In questa coincidenza risiede l'essenza del logocentrismo classico. Perciò la scienza antica non concepì un calcolo delle probabilità, pur essendo i giochi probabilistici praticati dagli antichi. In latino il dado si chiamava alea, da cui deriva il termine "aleatorio".

Di più. Gli antichi non solo non avevano una teoria delle probabilità. Non avevano neppure una teoria dei giochi, espressamente concernente l'ignoranza del soggetto sulla strategia dell'altro. La teoria dei giochi mira a determinare la soluzione del gioco, cioè il punto di equilibrio dei guadagni e delle perdite tra i giocatori, ammesso il "velo di ignoranza" entro cui i singoli giocatori operano.

La soluzione più semplice è quella proposta dal teorema di minimax di von Neumann per i giochi a somma zero tra due contendenti, dove il mio guadagno è la tua perdita e viceversa. Una soluzione più sofisticata è stata individuata da John Nash jr per i giochi a più contendenti. Soluzioni parziali, euristicamente determinate, sono note per i giochi a più giocatori con possibilità di alleanze e cooperazioni e dove la risultante del giocvo non è zero, cioè tutti possono vincere e tutti perdere. Cos'hanno in comune queste soluzioni? In tutte le varianti di gioco, la pratica epistemica – il sapere giocare – consiste principalmente nel

saperci fare con l'ignoranza.

Si ignora cosa immagina e cosa progetta l'altro che ho di fronte, inteso come avversario. Si ignora cosa pensa e desidera l'altro che ho accanto, supposto mio alleato. Ma nella pratica scientifica questa ignoranza non è un ostacolo; non costituisce un'inibizione. Esistono tecniche per gestire l'ignoranza e i rischi connessi. Sono tecniche che si estendono dal calcolo delle probabilità alla programmazione dinamica. Non entro in ulteriori dettagli. Mi limito a chiedermi:

"Quanto dello spirito delle scienze dell'ignoranza entra attualmente nella formazione dell'analista?".

Rispondo: molto poco.

Eppure l'analista ha a che fare con una duplice ignoranza: quella del proprio inconscio e quella dell'inconscio dell'analizzante. E' o non è l'inconscio un sapere che non si sa di sapere, quindi una fonte di ignoranza? L'inconscio è l'ignoranza inaugurale dell'epoca scientifica. Ma le scuole di psicanalisi preferiscono tacere in merito. Non vogliono sapere della propria ignoranza. Ognuna ha il proprio sapere dottrinario, codificato nei testi sacri una volta per sempre, e da lì non escono. (Chiusura topologica, ma nono solo!) Si limitano a trasmettere procedure standardizzate, che il giovane analista dovrà applicare pedissequamente ai casi della propria professione senza farsi troppi problemi. Di scienza – di scienza dell'ignoranza – nessuno parla e tutti vivono felici e contenti.

Cambierà questa situazione incresciosa con un'impostazione epistemica della psicanalisi, per esempio come la nostra attraverso le scienze dell'ignoranza? Non lo sappiamo – siamo ancora ignoranti. Quel che è certo è che un'impostazione epistemica brucia l'erba sotto i piedi all'impostazione ermeneutica sia in versione ontologica, come quella fenomenologica, sia in versione metapsicologica, come quella freudiana. Tolta o almeno indebolita l'ermeneutica si indebolisce la longa manus del padrone sui nostri cervelli.

"Non esistono fatti, ma solo interpretazioni", significa che esistono solo le interpretazioni che vanno bene al potere. Non era probabilmente questo che Nietzsche intendeva dire nella sua Genealogia della morale, ma è quel che il "pensiero debole" gli ha fatto dire. A dimostrazione del fatto che non ogni indebolimento è, per il solo fatto di essere debole, anche vantaggioso per il soggetto. L'indebolimento scientifico, che pone il dubbio e l'ignoranza all'inizio del sapere, promette evoluzioni epistemiche più favorevoli al soggetto.

Initium sapientiae timor Domini,

recita il Salmo 111. Noi preferiamo

Initium scientiae dubium.

Perché? Perché il dubbio si può modificare e trasformare in certezza – pur sempre parziale. Il timore del Signore, invece, resta tale e quale per sempre. Di fronte al Signore – che sia dio o qualche fantoccio che lo rappresenta – il soggetto resta congelato – nel terrore della morte, direbbe Hegel. Meno drammaticamente Freud direbbe che di fronte alla signoria, sempre di dubbia provenienza morale, il soggetto resta ipnotizzato.

Noi italiani ne sappiamo qualcosa per la lunga esperienza di arruffapopoli che abbiamo avuto nella nostra storia.

*
Il modello qui proposto è doppionegazionista, per non dire multinegazionista. Afferma che una scienza dell’ignoranza, come la psicanalisi, non può ridursi a una delle scienze correnti, ma neppure contraddire i loro risultati. (Vale per il nostro modello una sorta di principio del Terzo Incluso Generalizzato del tipo: non è A, non è B, non è C, ma non è neppure non A, non B, non C.)
Sostanzialmente il nostro modello va contro un luogo comune diffuso tanto nell’accademia quanto nei luoghi di cura. Si suole dire che la psicanalisi non è scientifica per le stesse ragioni per cui non è scientifica la storia. La storia non si fa né con i “se” né con i “ma”– si dice e si ripete. Si intende che nella ricostruzione storica non si prendono in considerazione le possibili conseguenze di un evento non avvenuto. Il lavoro dello storico non consiste nel formulare ipotesi fantasiose da mettere a confronto con i fatti storici reali (tuttavia, anche questa affermazione va presa con un granellino di sale). Analogamente, si vorrebbe dire che la psicanalisi non è scientifica perché non prevede gruppi di controllo, “senza psicanalisi”, contro cui testare gli effetti registrati nei gruppi “con psicanalisi ”. Come si fa, ad esempio, in farmacologia clinica, dove si sperimenta in doppio cieco; si dividono a caso i pazienti in due gruppi: a uno si dà il farmaco, all’altro il placebo, senza che nessun gruppo conosca il trattamento ricevuto. L’analisi statistica si incarica, a risultati ottenuti, di dimostrare scientificamente se l’effetto del farmaco, espresso in termini quantitativi o qualitativi, è significativamente superiore a quello del placebo.
Ebbene, questo modello “farmacologico” di scientificità – per altro molto gettonato anche in psicologia sperimentale – non si applica alla psicanalisi. Ma questo non basta a destituire di scientificità la psicanalisi. A questo punto devo proporre una distinzione sottile, che rischia di essere mal interpretata.
I suoi detrattori sostengono che la psicanalisi non è una scienza, perché non adotta i moduli della psicologia sperimentale. Io sostengo che la psicanalisi è una scienza, ma mi va bene che non adotti i moduli positivisti della psicologia sperimentale. La psicanalisi, come molte scienze, definitivamente acquisite al campo cartesiano, sfugge alla semplificazione del modello sperimentalista (positivista). In fisica non si danno particelle deterministiche e particelle indeterministiche, ma sono tutte indeterministiche. In biologia non si può dire quale sarebbe stata l’evoluzione delle altre specie se una certa specie non fosse venuta alla luce. Analogamente, nel caso della psicanalisi non posso dividere a caso i pazienti in due gruppi distinti: da una parte quelli che fanno psicanalisi e dall’altra quelli che non la fanno, per valutare “scientificamente” l’efficacia della psicanalisi. La scientificità della psicanalisi deve risiedere altrove rispetto allo schematismo positivista.

Direi ancora di più. Pur essendo una scienza dell'ignoranza – ma forse proprio perché lo è – la psicanalisi non può, non solo empiricamente ma neppure in linea di principio, suddividere la popolazione in due gruppi: da una parte gli ignoranti e dall'altra i non ignoranti, dove i primi fungerebbero da gruppo di controllo per i secondi. Perché? Per il teorema di Cartesio, valido in logica intuizionista, secondo cui il non sapere – l'ignoranza – è ancora una forma di sapere. In psicanalisi tutti sono ignoranti e tutti sanno. Precisamente, tutti ignorano di sapere quel che (inconsciamente) sanno. La divisione tra sapere e ignoranza non passa tra soggetti ma è interna al soggetto. I lacaniani parlano di soggetto diviso. Il teorema di Cartesio dà un modello di questa divisione soggettiva. Ma il teorema di Cartesio si dimostra in modo scientifico come qualunque altro teorema degno del CVD. Scientifico non vuol dire categorico e assoluto. (Lo ricordo a coloro che hanno una concezione metafisica della scienza, cioè ai positivisti, se ancora esistono, e... ai loro nemici, i fenomenologi, che ancora esistono e involontariamente propagano una concezione positivista della scienza, proprio perché la combattono.) Le verità scientifiche sono sempre relative, cioè condizionate da certi presupposti. Nel linguaggio di questo sito le verità scientifiche sono congetturali. In questo caso basta partire dal presupposto di Brouwer: la sospensione del principio del terzo escluso, ovvero basta adottare una logica epistemica di stampo spinoziano, dove il falso non è antitetico al vero ma è solo una forma di vero meno ben saputo del “vero”vero.

Per gli scettici riporto la breve dimostrazione per assurdo del teorema di Cartesio, adottando come operatore epistemico proprio il principio del terzo escluso e operando all'interno della logica intuizionista.

In questa logica l’enunciato

Se non so X, allora saprò X

si trascrive sostituendo a so X la formula del terzo escluso, applicata a X:

Enunciato: se non(X vel non X), allora (X vel non X).

Da qui in poi si procede per

Assurdo: Falsum (se non(X vel non X), allora (X vel non X));

Regola dell'implicazione falsa: Verum non(X vel non X), Falsum (X vel non X);

Regola dell'alternativa falsa: Verum non(X vel non X), Falsum X, Falsum non X;

Regola intuizionista della negazione falsa: Verum non(X vel non X), Verum X;

Regola della negazione vera: Falsum(X vel non X), Verum X;

Regola dell'alternativa falsa: Falsum X, Falsum non X, Verum X;

Contraddizione: Falsum X, Verum X;

CVD.

*

Qui riprendo l'esergo nietzscheano della pagina precedente:

Wir sind uns unbekannt, wir Erkennenden, wir selbst uns selbst. Siamo ignoti noi a noi stessi, noi che conosciamo. F. Nietzsche, Genealogia della morale, 1886-1887.

Il problema è allora il seguente: come è possibile concepire una morale, se non conosciamo noi stessi e a maggior ragione non conosciamo l'altro, verso il quale necessariamente è rivolta la nostra azione morale? (Non ci sarebbe bisogno di morale, se fossimo ontologicamente soli, come le monadi di Leibniz). Come concepire una morale dell'ignoranza, allora?

Non c'è verso di uscirne. Se siamo ignoranti, ignoriamo le conseguenze della nostra azione morale. Non c'è principio etico trascendentale che ci salvi da ciò: restiamo da sempre e per sempre immersi nell'incertezza degli esiti di ciò che facciamo. La responsabilità morale è solo questo: accettare le conseguenze di un'azione i cui effetti a priori ci sfuggono – sono imprevedibili a qualunque forma di conoscenza. Con conseguenze paradossali. La violenza che mi spinge a uccidere il prossimo è un tentativo di sfuggire all'incertezza degli esiti della mia azione. Se uccido il mio prossimo sono (quasi) sicuro a priori che l'altro sarà morto. Il comandamento

Non uccidere

è allora prima di tutto un comandamento epistemico. Equivale a

Sopporta la tua ignoranza.

Che è come dire

Sopporta gli esiti, che non conosci ancora, della presenza dell'altro.

Insomma, dopo Freud esiste l'inconscio, inteso come sapere che non si sa di sapere. L'esistenza dell'inconscio produce una sovversione soggettiva catastrofica. Il soggetto non è più interamente padrone della propria morale, pur rimanendo integrarmente responsabile della propria azione morale, qualunque essa sia. Quindi, ci tocca confezionare la nostra morale, a nostro rischio e pericolo, sulla base di un'ignoranza di fondo. Non abbiamo altri fondamenti che la nostra ignoranza per agire. Non a caso l'esergo riportato in cima si trova in un particolare testo nietzscheano, Zur Genealogie der Moral. Da cui gli ermeneuti traggono un aforisma che Nietzsche non ha mai formulato:

Non esistono fatti, solo interpretazioni.

Certo, se la mia interpretazione è sbagliata, la mia azione morale risulterà nel migliore dei casi "impertinente". Ma il pensiero di Nietsche è più sottile e problematico di quello spacciato per nietzscheano dagli ermeneuti postmoderni. Riguarda il "dolore morale o psichico". Cito:

Der »seelische Schmerz« selbst gilt mir überhaupt nicht als Thatbestand, sondern nur als eine Auslegung (Causal-Auslegung) von bisher nicht exakt zu formulirenden Thatbeständen: somit als Etwas, das vollkommen noch in der Luft schwebt und wissenschaftlich unverbindlich ist. (III, 16)

"Lo stesso 'dolore morale' non vale per me come dato di fatto, ma solo come interpretazione (eziologica) di un dato di fatto tuttora non perfettamente formulabile: qualcosa del tutto campato per aria e scientificamente non vincolante".

Allora l'aforisma postmoderno andrebbe modificato così:

Non esistono fatti che corrispondano alle cattive interpretazioni.

Le interpretazioni eziologiche sembrano a Nietzsche "cattive", campate per aria e insufficienti a risolvere il dolore morale. Avesse letto più Nietzsche, Freud non avrebbe costruito il suo castello in aria metapsicologico. Le interpretazioni eziologiche freudiane sul funzionamento dell'apparato psichico erano già per Nietzsche, addirittura prima che Freud le formulasse, wissenschaftlich unverbindlich.

Una dozzina di anni fa non dicevo cose non molto diverse dalle precedenti quando parlavo di

Etica a posteriori o etica all'epoca dell'inconscio.

In sintesi, la morale è saperci fare con l'ignoranza, meglio se non in modo interpretativo eziopatologico.

Questa potrebbe essere la versione moderna dell'intellettualismo etico di uno dei pochi pensatori epistemici del passato, Socrate. "Se conosci il bene, lo fai". Ma non lo conosci... o meglio, non sai di sapere cos'è il bene. Allora, come fai? Ti tocca agire per il meglio, provvisoriamente inteso, ignorando cos'è il bene e accettando le conseguenze del tuo agire nell'ignoranza.

Curiosamente, nella formulazione ortodossa della tecnica psicanalitica vige una sorta di ripulsa per l'atto, che è sempre considerato, se si produce nel trattamento psicanalitico, come una sorta di fallimento della cura – l'acting out, che neppure si vuole nominare nella propria lingua. Considero tutto ciò un artefatto dell'impostazione eziologica del pensiero freudiano. Da dimenticare.

*

Nelle scienze dure chi definisce una classe di modelli si preoccupa di dimostrare che tale classe non sia vuota. Io propongo una classe di modelli "interstiziali" per le scienze dell'ignoranza.

E se fosse vuota? Se fosse vuota, sarebbe stato inutile definirla. Ma le scienze dell'ignoranza non delimitano un campo vuoto. Esiste un oggetto che appartiene loro da millenni, addiritutta da prima che esistessero le scienze cartesiane o congetturali. Direi che l'oggetto principe delle scienze dell'ignoranza è quel discorso che Platone chiama "bastardo" (Timeo, XVIII, 52b), ma di cui pure fa gran conto:

la mitologia.

Ha ragione Platone. La mitologia è un discorso bastardo, perché non è né carne né pesce; non parla né dell'essere né del non essere, né del sapere né del divenire; tuttavia, è un discorso interstiziale, perché non appartiene né alla fisica, né alla biologia, né alla psicologia, né alla psicologia.

In quanto segue do un senso particolare, direi tecnico, al termine "bastardo". Comunemente esso si riferisce al risultato di una "contaminazione" tra due componenti diverse, il cui risultato è un "ibrido". Nel mio senso epistemico le due componenti diverse sono le due dimensioni della verità: la componente diacronica o narrativa e la componente sincronica o argomentativa (vedi sapere del tempo, tempo sincronico e tempo epistemico prescientifico). Il significato tecnico dell'affermazione che

"la mitologia è una bastardaggine"

si riferisce al tentativo ideologico di ristabilire la supremazia della dimensione narrativa su quella argomentativa, per esempio sotto forma di miti archetipici. Per contro, se la psicanalisi diventerà a pieno titolo una scienza dell'ignoranza, la ragione sarà perché è riuscita a ristabilire l'equilibrio tra le due dimensioni della verità in un ibrido autentico.

Si potrebbe con qualche ragione affermare che la mitologia non sia un discorso scientifico. Infatti, la mitologia è un discorso incontrovertibile: i miti non si mettono in discussione. I miti si vivono attraverso i riti che li incarnano nel tessuto sociale. In questo senso i miti formano l'asse portante del discorso del padrone. Chi li adotta – il servo – non vuole sapere altro; vuole solo rimanere nell'ignoranza, per meglio mettersi al servizio degli ideali di chi comanda. Non importa che siano ideali rivoluzionari o controrivoluzionari. Importa che siano ideali imposti a difesa del nostro non voler sapere.

In questo senso, allora, la mitologia è un oggetto paradigmatico di competenza delle scienze dell'ignoranza.

Un consiglio finale a chi voglia addentrarsi nel campo delle scienze dell'ignoranza. Stia attento a non diventare lui stesso mitologico – un superstizioso razionalista, magari un po' nostalgico di strutturalismo – nel trattare i miti della nostra ignoranza. Sono diventati (inavvertitamente?) mitologici grandi pensatori: Platone, Freud e tutta la schiera di teologi di ogni tempo e religione. La mitologia freudiana delle pulsioni e dell'Edipo non è più scientifica della mitologia platonica della caverna.

Considerazioni più filosofiche sulle modalità di presentazione delle scienze dell'ignoranza si trovano nel mio saggio, di prossima pubblicazione su "aut aut", intitolato

Saggio sulla res intensa o l'involucro della Cosa.

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